lunedì 30 gennaio 2012

Luisella Fiumi


Rubriche > interviste della domenica


All rights reserved to legal owner.Gaetano Tumiati, giornalista e scrittore ferrarese, ha 88 anni e un grande avvenire dietro le spalle. Non vive di ricordi ma ama raccontare una vita vissuta intensamente. Da quindici anni risiede a Verago di Trevozzo. La casa è ordinata, disposta su due piani, molti i libri tra i quali spiccano "Caos calmo" di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega e "Il podestà ebreo" di Ilaria Pavan che lo riporta alle radici, alla sua Ferrara, quella di Bassani e Antonioni, la città in cui è nato e dove ha vissuto gli anni di una gioventù non sempre beata. Due volte la settimana, di buonora raggiunge a piedi la vicina Sala Mandelli, quattro chilometri tra andata e ritorno. Osserva il paesaggio con uno spirito particolare, leopardiano per intenderci, con il pessimismo di chi, giunto quasi al termine di un lungo viaggio, ha la consapevolezza delle difficoltà della vita, della bellezza e della malvagità della natura, in cui - purtroppo - il falco mangia sempre il leprotto.

Da quanto tempo risiede nel Piacentino?«Sono quindici anni che abito a Verago. Prima di stabilirmi qui avevo una casa a Nizza Monferrato, in Piemonte, ma la dolcezza delle colline piacentine e la disponibilità della gente di queste parti mi rendono sereno. In estate, da giugno ad ottobre, non mi muovo da qui mentre con l'autunno e l'inverno io e mia moglie ci fermiamo solo per il fine settimana. Sono sposato con Olga, è molto più giovane di me, è il mio pilastro, la mia guida sicura. Mi regala certezze, è forte, è stata negli anni caldi del Sessantotto una leader del Movimento Studentesco. Ha carattere Olga e senza di lei non saprei come potrebbe essere oggi la mia vita. Sì, sono stato sposato con Luisella Fiumi, una brava scrittrice e una donna sensibile e straordinaria. Sono felice di vivere da queste parti, ho fraternizzato con la gente di Verago, apprezzo la bellezza di queste vallate e adoro il pane piacentino».

La sua Ferrara, qual è il ricordo di quella città?«Ferrara è la città in cui sono nato il 6 maggio 1918 e dove ho coltivato amicizie importanti. Mio padre Leopoldo apparteneva all'alta borghesia cittadina. Era avvocato e preside della facoltà di giurisprudenza. Gli zii Domenico e Gualtiero erano attori, drammaturghi, mentre zio Corrado, psichiatra, ben presto lasciò l'attività medica per svolgere quella di scrittore. Con il romanzo "I tetti rossi" s'aggiudicò il premio Viareggio nel 1931 e poi si trasferì a Firenze, dove assunse la carica di vicedirettore di una rivista molto importante, Il Ponte diretta, tra il 1945 e il 1956, da Piero Calamandrei. Io ho studiato presso i Barnabiti. Furono quattro anni di tormento, di sofferenza, di preghiere recitate con il senso del peccato e dell'espiazione. Il cattolicesimo di Pio XII, visto oggi, mi pare una barbarie. Fu grande, Papa Giovanni XXIII, a ridisegnare un'immagine nuova della Chiesa, ho stima per Papa Roncalli. Torno ai miei studi: mi laureai in giurisprudenza con 110 e lode e come tutti gli studenti di allora aderii, entusiasta, al Guf e poi partii volontario in Libia perché, come tanti giovani del tempo, ero convinto che i dettami del Duce fossero gli unici cui fare riferimento. Vivevo in un'Italia piccola e provinciale, il mondo andava avanti e noi, senza rendercene conto, viaggiavamo dalla parte opposta. Ricordo una frase che mi fece capire quanto il fascismo potesse incidere sulla nostra cultura di allora: su un muro era scritto che la guerra sta all'uomo come la maternità alla donna»

Furono anni difficili?«Anni drammatici in cui ho vissuto in prima persona i drammi di una guerra interminabile. Rimasi in Libia per un paio d'anni, l'esercito italiano era povero, malridotto e, soprattutto, privo d'organizzazione. Fui fatto prigioniero, trasportato in Tunisia, in Algeria, in Marocco e poi negli Stati Uniti, in Texas per essere preciso. Rimasi in America fino al febbraio del 1946. Gli americani durante la guerra ci trattarono molto bene. Divenni amico fraterno di Giuseppe Berto, conobbi Alberto Burri, Dante Troisi, Armando Boscolo e Beppe Niccolai. Ho anche raccontato nel libro "Prigionieri del Texas" la dura esperienza sofferta nel campo di Hereford nei mesi successivi alla fine della guerra. Dagli ultimi di maggio del 1945 hanno cominciato a diminuire le razioni di cibo. Prima hanno chiuso lo spaccio, poi hanno abolito le salse, il burro, ogni tipo di carne, fresca, congelata o in scatola. Non bastando, si passò a punizioni ancora più gravose: adunate senza scopo sotto il sole cocente, dalle dieci del mattino alle tre del pomeriggio, e gradevolezze del genere. La guerra era finita, ma a Hereford tutto restava uguale, cristallizzato. I prigionieri non capivano che cosa stava succedendo in Italia. Nel dubbio s'irrigidirono, evitando ogni collaborazione con gli americani, a loro volta sospettosi e orripilati dalla scoperta dei lager nazisti fecero di tutto per ritardare il ritorno a casa degli italiani, tanto che gli ultimi quattromila, me compreso, furono rimpatriati nel febbraio del 1946».

Una brutta storia la guerra, un'esperienza amara...«Mi chiedo ancora oggi perché tanta violenza, in pochi anni. Ricordo mio fratello Francesco. Nel 1941 decise di arruolarsi volontario. Mandato in Nordafrica, tornò in Italia nel febbraio del 1942, per seguire a Bologna un corso per allievi ufficiali. Promosso sottotenente fu assegnato al 32° Reggimento carristi. Fu sorpreso dall'armistizio mentre, con il suo reparto, si trovava a Cantiano, nella zona montana tra l'Appennino centrosettentrionale e il mare Adriatico. Mio fratello si diede alla macchia, seguito da un gruppo di suoi carristi e ben presto divenne, con il nome di "Francino", comandante del distaccamento "Pisacane" della Brigata Garibaldi "Pesaro". Per otto mesi guidò i suoi partigiani in azioni audaci contro i nazifascisti. Nel maggio del 1944, durante un massiccio rastrellamento, Francesco fu catturato dai tedeschi e sottoposto ad un processo sommario. Fu immediatamente fucilato. Capisce? Io stavo in Texas a marcire e mio fratello era morto. Ancora oggi non mi do pace. Strana la vita e ancora più strana è la guerra, sempre ingiusta. Per ripicca, quando tornai decisi che avrei fatto il giornalista e non l'avvocato».

Ebbe allora inizio la sua carriera d'inviato per i più importanti quotidiani italiani, ma anche la sua carriera di scrittore e di direttore di uno dei più prestigiosi periodici illustrati, l'Illustrazione italiana.«Cominciai all'Avanti. Fu Riccardo Lombardi ad inserirmi nella redazione milanese. Guadagnavo pochissimo e scrivevo moltissimo. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nel 1948, l'Italia lacerata del Dopoguerra e Nenni che scrive a Mao Tse Tung chiedendogli di ospitarmi in Cina come inviato. Un mese dopo il visto. Partii, tra lo stupore dei colleghi comunisti in un viaggio straordinario. Nella Cina maoista. E così, dopo il Texas mi ritrovai ancora una volta a fare i conti con Paesi lontani, perché di lì a poco fui inviato in Corea del Nord. Finalmente tra il 1958 e il 1960 passai a "L'Illustrazione Italiana", una rivista molto ricercata. Divenni il direttore, conobbi Ugo Mulas, uno straordinario fotografo. Avevo smesso di viaggiare, ma di lì a poco, a "La Stampa", avrei dovuto rimettermi in auto, questa volta lungo l'Italia».

Nei primi anni Sessanta ebbe l'incontro con Giulio De Benedetti...«Più che un incontro fu un bombardamento giornalistico. Arrivai a "La Stampa" con la qualifica d'inviato speciale. Io ero alla redazione milanese del quotidiano. De Benedetti era un direttore vecchia maniera. Non transigeva, il mattino si viaggiava, il pomeriggio ci s'informava e la sera si trasmetteva. Furono anni in cui gli inviati del quotidiano torinese erano tra i migliori in circolazione. Ci occupavamo di tutto. Dai gruppi extraparlamentari ai servizi segreti».

Poi l'incarico di vicedirettore di Panorama e l'esperienza al Secolo XIX... «Lamberto Sechi è il padre nobile di tanti giornalisti. Ma anche di tanti giornali, dal momento che è stato lui, con la fondazione di "Panorama", ad introdurre in Italia il modello del newsmagazine di scuola anglosassone. Non solo, dalla scuola inglese importò e diffuse anche l'ormai abusato slogan: i fatti separati dalle opinioni. E posso anche essere orgoglioso di essere stato il vicedirettore di quel settimanale in anni importanti in cui ho avuto modo di lavorare con un gruppo di colleghi più giovani che poi sono tutti diventati direttori o vicedirettori di testate importanti: Giulio Anselmi, Claudio Rinaldi, Carlo Rossella, Claudio Sabelli Fioretti, Carlo Rognoni. Una buona scuola. Per quanto riguarda "Il Secolo XIX" avevo una collaborazione. Scrivevo un paio di editoriali alla settimana, eravamo nei primi anni Novanta. Ricordo la cordialità e la serietà di Gaetano Rizzuto (allora vice-direttore vicario del "Secolo XIX, di cui poi è stato direttore per 5 anni), col quale ho avuto un rapporto esemplare. Un po' meno felice l'esperienza con il direttore Mario Sconcerti. Mai una telefonata e nessun confronto».

Come la mette con il senso dell'esistenza, lei che ha attraversato questo Paese partendo dal fascismo fino a questi anni Duemila intrisi di populismo mediatico?«Non sono orgoglioso d'essere italiano. Per niente. Mi spiego. Abbiamo avuto delle menti straordinarie, da Dante a Petrarca, da Manzoni a Leopardi ma non possediamo il senso dello Stato. Sono un ciampiano autentico, sono ateo anche se quando è venuto a mancare Giovanni Paolo II ho provato un senso di vuoto e ho avuto una grande stima per tutti quei giovani che sono scesi a Roma, pellegrini dei nostri giorni, a porgergli l'ultimo saluto. Questi giovani appartengono alla parte buona dell'Ulivo. Sì, perché io ho votato per Prodi e sono convinto nelle potenzialità di questo uomo di Stato».


 04/09/2006 16.28.43


Luisella e Olga

Gaetano Tumiati ha scritto per Libertà questo articolo dedicato ai due grandi amori della sua vita: Luisella e Olga
IL GRANDE AMORELuisella Fiumi, nata e vissuta a Milano ma con una lunga parentesi triestina - dal Liceo alla laurea in Lettere -, giornalista, scrittrice, autrice di libri di successo (Come donna zero, Madri e figlie), è stata il grande amore della mia vita. Colpo di fulmine alla mensa dei giornalisti, fine anni Quaranta. Immediatamente affascinato dalla sua avvenenza mediterranea, ma soprattutto dall'acume con cui difendeva le sue convinzioni filosofiche, politiche, letterarie. Affascinanti anche le sue contraddizioni caratteriali: timida ma risoluta, dimessa nell'abbigliamento ma in fondo in fondo un po' snob, radicata nella sua milanesità, ma piena di nostalgia per la "sua" Trieste.
Ci sposammo soltanto nel '53 dopo anni turbolenti di entusiasmi e lunghe rotture. Matrimonio religioso in Sant'Eustorgio anche se tutti e due "non credenti". Molti invitati, gran pranzo al Gallia.
Quelli immediatamente successivi sono stati gli anni più felici della mia vita. Amore fisico tanto; ma soprattutto un dialogo continuo, una catena di confessioni, ricordi, confronti, convincimenti, speranze, quasi a denudarci anche spiritualmente. Non sempre d'accordo - tra l'altro, io socialista, lei chiaramente "liberal" - ma tutti i due entusiasti di tanto calore comunicativo.
Appagato nel mio lavoro giornalistico e ora addirittura alle stelle per l'unione con lei, una sera, dopo un dialogo più caldo del solito, sbottai in questa ingenua, clamorosa esclamazione: "Sono l'uomo più felice del mondo!".
Lei un'affermazione simile non l'avrebbe mai fatta. Al massimo, alla domanda se fosse felice, avrebbe risposto ironicamente: "Beh, quasi". Pienamente penso non lo sia mai stata. Gioia e allegria apparivano sul suo viso soltanto in certe occasioni: articoli ben riusciti, scorribande al Supermarket con l'amica del cuore, scampagnate domenicali in comitiva con le gemelle e altri bambini che ruzzolavano nell'erba.
Purtroppo con il passar del tempo queste illuminazioni vennero facendosi sempre più rare. Al loro posto i primi sintomi della depressione: occhi improvvisamente spenti, viso inerte, opacità. "Ho paura", mormorava. "Di che? Dimmi, dimmi!". "Non so".
Perché? Cosa provocava quella inspiegabile angoscia? Forse l'eccesso di sensibilità? Certo l'aggravarsi della ipoacusia destinata anni prima ad isolarla via via dal mondo. Ma oggi penso - allora non me ne rendevo ben conto - che la causa determinante fosse un'altra: il Ruolo, cioè i compiti tradizionali di moglie, di madre, di donna, che soffocavano la sua ansia di libertà, la sua aspirazione alla parità con l'uomo.
Se davvero l'angoscia aveva queste origini c'era poco da fare. A ben poco infatti valsero amore familiare, successo letterario, cure chimiche e psicanalisi. E neppure l'impegno nel Movimento femminista. Forse si sarebbe salvata con una rottura, con una fuga verso la libertà e l'indipendenza. Magari nella sua Trieste. Ma c'era quella maledetta sordità, e poi ci voleva troppo bene. E non ne ebbe la forza.

IL ROBUSTO PILASTROAl primo incontro con Luisella io avevo trent'anni, lei ventiquattro; a quello con Olga, colei che sarebbe diventata la mia seconda moglie, io sessantadue, lei trentaquattro. E ne dimostrava anche meno. Chiara d'occhi e di capelli, piccolo naso "francese", a tutta prima la scambiai per un'amica delle mie figlie. Ma non ci volle molto a capire che, sotto quell'aspetto, c'era una donna forte, concreta, di poche parole. Una che, di fronte a qualsiasi difficoltà, sfoderava un suo motto perentorio: "No problem!". Del resto le sue capacità le aveva dimostrate coi fatti. Milanese, origini piacentine, laureata in Scienze politiche, sposata giovanissima e presto divorziata, per mantenere se stessa e la sua bambina, Laura, era riuscita a sfondare in un campo diversissimo dal suo: titolare a Bologna di un piccolo Centro audiometrico, specializzato nella vendita di sofisticati apparecchi acustici. E da Bologna, per vedere la sua bambina, affidata ai nonni, sfrecciava a Milano due volte la settimana su un'Alfetta coupé, centocinquanta all'ora.
A convocarla a casa nostra era stata Luisella stessa nella speranza trovasse un rimedio alla sua incubosa ipoacusia. Purtroppo un rimedio tecnico non c'era. Preziosissimo invece l'aiuto psicologico che Olga poté darle: consigli, esortazioni, regole per evitare imbarazzo. Per oltre due anni. Fino alla fine. Rimasto solo, ero convinto che Olga non l'avrei più vista. Invece dopo qualche tempo riapparve. Omaggio alla memoria, solidarietà nel dolore che mi fece piacere. Seguì una lunga serie di incontri sempre più frequenti e più caldi, tanto che alla fine decidemmo di metterci insieme senza progetti matrimoniali, però. Sotto questo aspetto la più intransigente era lei. Quando un anno dopo le proposi di sposarmi, mi bloccò con un sommesso, inesorabile "no", ribadito via via ogni volta che rinnovavo la proposta. (Soltanto pochi anni fa quel "no" si è finalmente sciolto: matrimonio civile, niente inviti, niente pranzo).
Olga entrò dunque nella vecchia casa di via Quadronno e con lei anche sua figlia Laura, una dodicenne graziosa, seria, pulita - oggi giovane architetto - che, con mio gran piacere, allietò le stanze che erano state delle mie figlie.
Da quel giorno Olga ha saputo affrontare e risolvere i nostri problemi, in particolare i miei, all'insegna del "no problem": da quelli dell'assistenza sanitaria a quelli della cucina; da quelli degli spostamenti e dei viaggi, capacissima di resistere ore e ore al volante, a quelli di giardinaggio nella nostra seconda casa in Valtidone. Per non parlare di quelli psicologici. Insomma, un pilastro. Non soltanto per me. Anche per tre delle mie cinque nipotine che mia figlia Francesca, impegnatissima giornalista di moda, ci affida volentieri nei periodi vacanza in campagna.
Così, da quasi vent'anni, Olga è anche "nonna", con tutta l'affettuosità, ma senza l'eccessiva tolleranza della categoria. Tesa ad inculcare, oltre alle nozioni, i principi cardine della morale.
Pilastro senza incrinature? Compagna senza difetti? Uno, e grave, a mio parere ce l'ha. Grande lettrice, parla poco; pochissimo. Mai in ogni caso dei propri sentimenti. Un'ostrica. Ma è poi così grave?











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ELZEVIRO TORNA IL ROMANZO DI LUISELLA FIUMI

LA VITA AGRA DI UNA MOGLIE

Un «furibondo memoriale» uscito nel 1974

Luisella Fiumi se n' è andata tanti anni fa. Come donna, zero, è il titolo di un suo libro che oggi torna (Calypso editore, pp. 155, 16). «Divertente», lo definisce la noticina editoriale. No, divertente no. Fa sorridere, sì fa sorridere. Ma se appena gratti le parole allegre, trovi tutta la malinconia che sta dietro il non-senso della vita. In questo caso la vita di una donna che paga il prezzo della sua intelligenza: che interpreta il suo ruolo di moglie e di madre al passo con i tempi. Quei tempi. Lei che era «avanti»: con il cervello e con il cuore. Ma era «dentro» quel meccanismo chiamato «famiglia» che una generazione fa metteva la sordina a ogni spirito libero. Lei lo era, uno spirito libero, ma non lo faceva pesare (anni Settanta!) al marito «perfetto», alla mamma «svagatamente autoritaria», alle figlie contestatrici che davano l' assalto al cielo «trovandoci, compagni, alle undici e un quarto all' incrocio tra piazza Santo Stefano e via Larga»; quello che succedeva era ininfluente, compagne e compagni; ma era sempre un bel casino emozionante che valeva la pena di esserci in mezzo. E allora, divertiamoci. A (ri)leggere questo libro-flipper dove quattro palline (lei Luisella, lui il marito, loro le due figlie) disegnano geometrie di famiglia. Anni Settanta, appunto. Con tutte le fatiche di quei giorni. E dei nostri. Perché Luisella Fiumi con il suo understatement, con la sua nonchalance, con la leggerezza di chi sa dire, raccontare, scrivere cose complicatissime facendo finta che siano lievi come un sorriso, toglie la maschera agli schiavi dei doveri borghesi (mariti dolcemente autoritari, mogli coscientemente vittime) di quella-questa Italia. Lui, il Bosi. Per pudore, Luisella scrive Bosi, ma intende Boss. Comanda lui: con garbo, gentilezza, talvolta complicità, ma comanda lui. Ironica-accettazione: «Certo, non era facile essere moglie di un marito perfetto. Era un' immensa fortuna, un onore che, tuttavia, mi dava molte responsabilità». Il cui peso era aggravato dal fatto che «avevo ricevuto un' educazione sbagliata, irrimediabilmente borghese, e in più leggevo Freud». E c' è posto anche per Stalin: il Bosi-fidanzato «chiacchiera molto e possiede Verità Assolute, io Verità Relative, dette anche "Secondo Me". Lui diceva che Stalin in un certo senso aveva ragione, io dicevo di no». Poi il Bosi-marito parla meno, ma spiega: «La differenza tra gli uomini e le donne consiste in questo: che le donne parlano e gli uomini no. Gli uomini parlano solo quando hanno qualcosa da dire, mentre le donne parlano sempre di qualsiasi cosa». E Luisella, tanti anni fa dice: «Gli uomini non parlano per il semplice motivo che non sanno cosa dire. Agiscono molto e pensano poco, per questo non parlano. Chi pensa parla». E mentre tutti e tutte nel 1974, quando uscì per la prima volta questo libro senza etichette (no-pamphlet, no-saggio, no-romanzo, no-diario), ne applaudivano la carica umoristica («amica mia, come ti capisco, come mi hai fatto ridere!»), l' unico che ne seppe interpretare la portata dirompente fu un intellettuale maschio, Claudio Carabba, che lo definì un «furibondo memoriale»: non certo per la forma, ma di sicuro per la sostanza. A volte bastano quei «calzini che non si rammendano da soli» (detto da un marito) per sentirsi «una moglie che non sa fare la moglie come si deve». O quell' «oddio come sei noiosa, come sei suffragetta, non so dove vuoi parare» (detto da una madre) per farsi travolgere da un sillogismo (im)perfetto: «L' uomo è un cretino, la donna è intelligente, quindi deve curarsi dei bambini senza voler trasformare gli uomini in donne di casa». O le figlie che provi a farle ragionare su Lenin e ti senti dire che aveva una faccia tagliente e forse non era simpatico perché pur essendo intelligente era un po' freddino. O te stessa quando ti dicono che non hai bisogno di spazi tuoi perché la casa in cui vivi è tutta tua e tu pensi: «Non c' è lampada, non c' è poltrona, seggiola che non sia mia, asciugamano asciutto che, volendo, non diventi mio. E forse, proprio per questo sono legata alla casa tutta mia con la catena, di "mio" vorrei un paio d' ali grandi e robuste come quelle degli angeli. Per volare via».
Cevasco Francesco
Pagina 31
(26 aprile 2009) - Corriere della Sera

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